Morto a New York a 78 anni. Vinse il Pulitzer raccontando la terra di origine
Frank McCourt, con l’Irlanda nel cuore
Prima la povertà, poi una vita da «prof» e quindi
il successo con «Le ceneri di Angela»
Frank McCourt ha avuto tre vite. L’autore di Le ceneri di Angela, morto settantottenne ieri a New York per una meningite che aveva colpito nei giorni scorsi il suo fisico già minato da un male incurabile, aveva cominciato la sua prima vita nel 1930 a Brooklyn, figlio di immigrati poverissimi che quattro anni dopo erano tornati a Limerick, Irlanda, terra d’origine dei McCourt. Quella vita fu dickensiana, da sopravvissuto per miracolo alla povertà, al freddo e alla malnutrizione che avevano ucciso tre dei suoi sei fratelli. Poi il ritorno negli Stati Uniti, i lavori occasionali, il servizio militare e infine, grazie alla borsa di studio da reduce, la laurea in lettere e l’inizio della seconda vita.
Quella da insegnante nelle scuole pubbliche di New York, «prof» anticonformista e innamorato della poesia, che passava le ore ascoltando i ragazzi «perché hanno insegnato più cose a me di quante io ne abbia mai spiegate a loro», cantando e suonando l’armonica a bocca in classe «perché chi sta in cattedra non dovrebbe essere un nemico, ma un alleato». E finalmente, raggiunta la pensione, a 66 anni, sposato con la terza moglie, ecco la terza e ultima vita: quella di scrittore di best-seller mondiali e contemporaneamente («doppietta » difficilissima da realizzare) vincitore di premi importanti, da salotto buono delle lettere americane: il Pulitzer e il National Book Critics Circle nel 1996 per il suo primo libro, le sue memorie: Le ceneri di Angela, immediatamente fenomeno editoriale globale da tre milioni di copie negli Usa e due e mezzo in Regno Unito e Irlanda (è stato pubblicato in Italia, come tutte le sue opere successive, da Adelphi).
Perché McCourt aveva in mente da decenni di raccontare la sua vita, ma ogni tentativo di scrivere finiva in una falsa partenza. Finché, diventato nonno affettuosissimo del piccolo Frank jr — con il rimorso di essere stato un padre distante per la ribelle figlia Maggie, scappata a 17 anni con la band psichedelica dei Grateful Dead — non capì che avrebbe dovuto usare, per scrivere le sue memorie, la voce di se stesso da bambino. Ed ecco fluire subito dalla penna quell’incipit indimenticabile: «Gente di tutte le razze si vanta — o si lamenta — di quanto sia stata brutta la propria infanzia, ma non c’è niente di paragonabile a una brutta infanzia irlandese. La povertà. Il padre alcolista, chiacchierone e disoccupato. La madre religiosa e stanca che si lamenta accanto al caminetto. I preti arroganti. I maestri di scuola prepotenti. Gli inglesi, e tutte le brutte cose che ci hanno fatto per ottocento lunghi anni».
Così arrivarono i premi letterari, il successo globale tradotto in trenta lingue, tutte quelle copie vendute, il film hollywoodiano, l’invito a parlare alle Nazioni Unite. Tutto grazie alla sua voce di bambino, alle parole del piccolo Frankie che accompagnava mamma Angela, triste e coraggiosa, nella quotidiana via crucis attraverso i pub alla ricerca di suo padre disoccupato e alcolizzato, che diceva ai suoi bambini affamati e digiuni «il cibo fa male» prima di andare a spendere il sussidio in whisky e birra scura. La stessa birra che Frankie vide lordare la bara bianca del suo fratellino morto di stenti, perché papà Malachy non era riuscito a restare sobrio, e con le mani pulite, neanche quella volta. E McCourt sorrideva nel suo modo timido e un po’ incredulo ricordando come dovesse la sua fortuna e la sua ricchezza di vecchio, l’attico a Manhattan e la bella fattoria in campagna, alla sfortuna e alle umiliazioni subite da bimbo, a quelle storie struggenti raccontate senza autocommiserazione ma con umanità e humor.
Il tranquillo ex-professore dei ragazzacci del liceo Stuyvesant diventò amico delle star d’Irlanda come Liam Neeson e Bono. E, in quel 1998 degli storici Accordi del Venerdì Santo, si trasformò in ascoltato apostolo del processo di pace: «È inevitabile, l’ho capito parlando con i giovani dell’Irlanda del Nord. Sono stanchi di tutto quell’odio, vogliono la possibilità di vivere in un Paese normale. Non è più tempo di 'morire per l’Irlanda', come nelle canzoni che mi cantava mio padre. I ragazzi vogliono cominciare a vivere», disse, profetico, al Corriere quell’anno.
E dopo il successo de Le ceneri di Angela pubblicò il seguito: Che Paese, l’America. Poi la storia del suo lavoro d’insegnante: Ehi, prof!. E infine un racconto semplice, per bambini, Angela e Gesù Bambino, che ha commosso anche i grandi: in cui sua madre, a sei anni, cerca di rubare dalla gelida, umida chiesa di Limerick la statua di Gesù bambino. Per tenerlo al caldo e al riparo, almeno per una notte. Perché non morisse di freddo come i suoi fratellini. Ma il tempo riservato alle tre vite di Frank McCourt era finito: mentre lavorava, alla soglia degli 80 anni, al suo primo romanzo. «Il mio esordio da giovane autore di fiction», scherzava. Proprio lui che diventò famoso raccontando la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Con umanità, grazia, e un sorriso di bambino.
Matteo Persivale
Corriere della Sera
20 luglio 2009
Frank McCourt, con l’Irlanda nel cuore
Prima la povertà, poi una vita da «prof» e quindi
il successo con «Le ceneri di Angela»
Frank McCourt ha avuto tre vite. L’autore di Le ceneri di Angela, morto settantottenne ieri a New York per una meningite che aveva colpito nei giorni scorsi il suo fisico già minato da un male incurabile, aveva cominciato la sua prima vita nel 1930 a Brooklyn, figlio di immigrati poverissimi che quattro anni dopo erano tornati a Limerick, Irlanda, terra d’origine dei McCourt. Quella vita fu dickensiana, da sopravvissuto per miracolo alla povertà, al freddo e alla malnutrizione che avevano ucciso tre dei suoi sei fratelli. Poi il ritorno negli Stati Uniti, i lavori occasionali, il servizio militare e infine, grazie alla borsa di studio da reduce, la laurea in lettere e l’inizio della seconda vita.
Quella da insegnante nelle scuole pubbliche di New York, «prof» anticonformista e innamorato della poesia, che passava le ore ascoltando i ragazzi «perché hanno insegnato più cose a me di quante io ne abbia mai spiegate a loro», cantando e suonando l’armonica a bocca in classe «perché chi sta in cattedra non dovrebbe essere un nemico, ma un alleato». E finalmente, raggiunta la pensione, a 66 anni, sposato con la terza moglie, ecco la terza e ultima vita: quella di scrittore di best-seller mondiali e contemporaneamente («doppietta » difficilissima da realizzare) vincitore di premi importanti, da salotto buono delle lettere americane: il Pulitzer e il National Book Critics Circle nel 1996 per il suo primo libro, le sue memorie: Le ceneri di Angela, immediatamente fenomeno editoriale globale da tre milioni di copie negli Usa e due e mezzo in Regno Unito e Irlanda (è stato pubblicato in Italia, come tutte le sue opere successive, da Adelphi).
Perché McCourt aveva in mente da decenni di raccontare la sua vita, ma ogni tentativo di scrivere finiva in una falsa partenza. Finché, diventato nonno affettuosissimo del piccolo Frank jr — con il rimorso di essere stato un padre distante per la ribelle figlia Maggie, scappata a 17 anni con la band psichedelica dei Grateful Dead — non capì che avrebbe dovuto usare, per scrivere le sue memorie, la voce di se stesso da bambino. Ed ecco fluire subito dalla penna quell’incipit indimenticabile: «Gente di tutte le razze si vanta — o si lamenta — di quanto sia stata brutta la propria infanzia, ma non c’è niente di paragonabile a una brutta infanzia irlandese. La povertà. Il padre alcolista, chiacchierone e disoccupato. La madre religiosa e stanca che si lamenta accanto al caminetto. I preti arroganti. I maestri di scuola prepotenti. Gli inglesi, e tutte le brutte cose che ci hanno fatto per ottocento lunghi anni».
Così arrivarono i premi letterari, il successo globale tradotto in trenta lingue, tutte quelle copie vendute, il film hollywoodiano, l’invito a parlare alle Nazioni Unite. Tutto grazie alla sua voce di bambino, alle parole del piccolo Frankie che accompagnava mamma Angela, triste e coraggiosa, nella quotidiana via crucis attraverso i pub alla ricerca di suo padre disoccupato e alcolizzato, che diceva ai suoi bambini affamati e digiuni «il cibo fa male» prima di andare a spendere il sussidio in whisky e birra scura. La stessa birra che Frankie vide lordare la bara bianca del suo fratellino morto di stenti, perché papà Malachy non era riuscito a restare sobrio, e con le mani pulite, neanche quella volta. E McCourt sorrideva nel suo modo timido e un po’ incredulo ricordando come dovesse la sua fortuna e la sua ricchezza di vecchio, l’attico a Manhattan e la bella fattoria in campagna, alla sfortuna e alle umiliazioni subite da bimbo, a quelle storie struggenti raccontate senza autocommiserazione ma con umanità e humor.
Il tranquillo ex-professore dei ragazzacci del liceo Stuyvesant diventò amico delle star d’Irlanda come Liam Neeson e Bono. E, in quel 1998 degli storici Accordi del Venerdì Santo, si trasformò in ascoltato apostolo del processo di pace: «È inevitabile, l’ho capito parlando con i giovani dell’Irlanda del Nord. Sono stanchi di tutto quell’odio, vogliono la possibilità di vivere in un Paese normale. Non è più tempo di 'morire per l’Irlanda', come nelle canzoni che mi cantava mio padre. I ragazzi vogliono cominciare a vivere», disse, profetico, al Corriere quell’anno.
E dopo il successo de Le ceneri di Angela pubblicò il seguito: Che Paese, l’America. Poi la storia del suo lavoro d’insegnante: Ehi, prof!. E infine un racconto semplice, per bambini, Angela e Gesù Bambino, che ha commosso anche i grandi: in cui sua madre, a sei anni, cerca di rubare dalla gelida, umida chiesa di Limerick la statua di Gesù bambino. Per tenerlo al caldo e al riparo, almeno per una notte. Perché non morisse di freddo come i suoi fratellini. Ma il tempo riservato alle tre vite di Frank McCourt era finito: mentre lavorava, alla soglia degli 80 anni, al suo primo romanzo. «Il mio esordio da giovane autore di fiction», scherzava. Proprio lui che diventò famoso raccontando la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Con umanità, grazia, e un sorriso di bambino.
Matteo Persivale
Corriere della Sera
20 luglio 2009
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