giovedì 22 luglio 2010

“Per una società alternativa” di Davide Romano


La democrazia, per la sua fragilità intrinseca, ha bisogno di essere alimentata di continuo a tutti i livelli, con l’innovazione nelle forme che la regolano, con l’allargamento di poteri e decisioni reali a più larghe fette di cittadini, e con la difesa dai pericoli che la minacciano soprattutto nei ricorrenti periodi di crisi economiche ed istituzionali, o di conflitti tra nazioni. La democrazia per funzionare deve essere “sentita” come la propria àncora insostituibile da tutti i cittadini, e per ottenere questo risultato non può ripiegare soltanto ed esclusivamente sui principi cosiddetti liberali, ma sostanziarsi anche dei valori comunitari di giustizia, di eguaglianza, di umanesimo solidaristico propri dei movimenti socialisti. È sempre più evidente che la democrazia così com’è strutturata oggi viene dipinta e interpretata come un orpello del passato, incapace di reggere le sfide tra gli Stati. La si accusa spesso, in perfetta malafede, di avere tempi decisionali lunghi, paragonandola ai ritmi frenetici di una impresa. In realtà le moderne democrazie non sono avvertite come insostituibile regime di libertà proprio perché sono piene di ingiustizie e si vanno sempre più ripiegando su se stesse, fino ad essere percepita dai cittadini come luogo di gestione dei privilegi per pochi ed esclusione sociale per molti, soprattutto donne, bambini, immigrati, rifugiati.
Le democrazie rischiano in sostanza di chiudersi sul versante dei diritti e di lasciare ai soggetti forti dell’economia campo libero nel gestire sempre più spazi di vita, di socialità e di organizzazione politica. È decisivo pertanto trasformare le nostre democrazie, ripensarle radicalmente per verificarne i contenuti di fondo e rivederne i meccanismi decisionali e partecipativi. Nel contesto attuale si stanno progressivamente affermando due bisogni che incalzano le democrazie e le spingono a ridefinirsi. Sono due bisogni che possono restringere gli spazi di democrazia quanto allargarne gli orizzonti ed i livelli: il bisogno di territorialità e quello di globalizzazione. Ognuno di questi bisogni trascina con sé aspetti positivi e negativi.
La sfida alle democrazie è aperta. Iniziamo ad interrogarci sul bisogno di territorialità che emerge dall’umanità. Un approccio negativo crea il rischio di trasformare la territorialità in localismo chiuso, asfittico e portatore di ingiustizia. Ci sono culture politiche che interpretano, ad esempio, le diversità religiose e le caratteristiche storico-culturali, sociali e linguistiche di ciascun sistema locale come appartenenza chiusa, che respinge qualunque apertura, culturale o sociale: una sorta di etno-centrismo razzista, integralista ed auto-esaustivo. Quest’idea di territorio abbassa i profili della democrazia, in molti casi li nega e chiude il territorio a quei valori di pace, di sviluppo dei diritti umani, di crescita dell’uguaglianza e della partecipazione democratica. Si può anche arrivare al punto che la propria specificità territoriale, vissuta come appartenenza totalizzante, giustifichi alleanze con le mafie locali e la negazione dei diritti umani si traduca nel proliferare di forze politiche e sociali contro i flussi degli immigrati, contro il pluralismo culturale, religioso e politico.
Ma ci può essere un’altra idea più positiva della dimensione territoriale. Un’idea che valorizzi la propria specificità locale, la propria tradizione per costruire un’identità aperta, per creare una nuova socialità, per dare alla propria vita un orizzonte non massificato e omologato dai consumi e dai modelli culturali imposti dalle multinazionali. La storia, l’arte, la cultura, le lingue, i dialetti, le differenze religiose e sociali devono diventare un punto di partenza per aprire le porte della propria identità e spingerla a mettersi in cammino con altre culture e identità per arricchire il proprio orizzonte sociale, economico e politico di quei valori di fondo che bisogna sempre più condividere: la pace, la giustizia sociale, i diritti umani. Territorio aperto che diventa in democrazia centralità della città, dei municipi. Centri piccoli e grandi che cooperano ed incidono positivamente sulla vita dei cittadini. Città che sviluppano l’autogoverno locale, la partecipazione dei cittadini, la capacità di saper coinvolgere attivamente la propria comunità nell’autosviluppo locale.
Un’altra sfida alla democrazia è lanciata dalla globalizzazione; anche questa, come i “social forum” in varie parti del mondo stanno sempre più approfondendo, può avere un doppio esito: negativo o positivo. Attualmente nel mondo sembrano prevalere soltanto gli effetti negativi, per cui la globalizzazione fa condividere agli uomini, alle donne e ai bambini, ai lavoratori e ai disoccupati, ai poveri ed agli esclusi meno diritti, meno uguaglianza, meno pace. La realtà si è dimostrata più crudele ed oggi la modernizzazione si avvia progressivamente a produrre e a convivere con forti processi di esclusione sociale, economica e politica.
Per molti Paesi, soprattutto quelli del sud del mondo, la globalizzazione si è rivelata un boomerang dalle conseguenze catastrofiche sui propri sistemi produttivi, sulle condizioni di vita di milioni di esseri umani e sull’equilibrio degli eco-sistemi. La globalizzazione sta schiacciando la democrazia e sta facendo crescere nel panorama economico mondiale colossi economico-finanziari che impongono modelli di sviluppo distruttivi per l’umanità e per l’ambiente. Anche le mafie si sono globalizzate e riescono ad imporre il narcotraffico, la gestione dei rifiuti radioattivi, il commercio delle armi e persino il traffico degli esseri umani fino a determinare una nuova schiavitù di milioni di donne, bambini e lavoratori, come ha documentato un’inchiesta in Italia della Commissione parlamentare antimafia del 2000.
Occorre allora costruire un’altra idea di globalizzazione che sia realmente in grado di governare i processi economici e sociali sotto il segno di valori positivi: la globalizzazione deve diventare una risorsa della democrazia che contribuisca a far crescere la pace, i diritti umani, ampliare gli spazi di libertà, combattere le mafie ed eliminare le cause sociali, economiche e politiche che in più parti del mondo determinano il terrorismo e violenti conflitti.
La democrazia si è storicamente sposata con gli Stati-nazione, che oggi rappresentano il livello più in crisi delle democrazie. Dare un esito positivo al bisogno di territorialità richiede innanzi tutto di innalzare il livello delle democrazie nel territorio attraverso l’autogoverno delle città, il collegamento e la cooperazione tra le comunità locali, così pure per dare una svolta radicale all’attuale globalizzazione si devono costruire livelli di democrazia mondiale che siano in grado di arricchire l’umanità, combattere le povertà e l’esclusione sociale, garantire a tutti l’accesso alle risorse idriche, al cibo, alla casa, alla cura delle malattie, ai nuovi diritti della sicurezza sociale, dell’informazione e dell’ambiente. Una nuova territorialità e una nuova globalizzazione devono diventare le gambe forti delle democrazie. Ma quale sia il percorso ottimale e quale la meta finale sono temi in discussione sui quali ancora oggi le diverse opinioni appaiono molto confuse. Per quel che ci riguarda proviamo a sintetizzare in quattro i punti fondamentali su cui ogni democrazia deve poter incamminarsi: pace, sviluppo sostenibile, decisione democratica e partecipazione politica.
Le democrazie non possono più produrre guerra. È sempre più evidente che la guerra sia di per sé la negazione della democrazia. La recente guerra in Iraq ha fatto emergere almeno sette gravi questioni:
1. la negazione del valore della pace, ampiamente riconosciuto nella costituzione di molti paesi e sancito nel diritto internazionale, e l’imposizione della terribile dottrina della guerra preventiva;
2. l’inutilità della stessa guerra che non ha dato soluzione ai gravi e drammatici problemi dell’Iraq, paese che oggi versa in uno stato di aggravamento delle proprie condizioni, con numerose difficoltà nell’avviare un percorso veramente democratico;
3. la riduzione dei livelli di trasparenza e di democrazia soprattutto negli Stati Uniti ed in Inghilterra, al punto tale da costruire e diffondere false notizie sul presunto possesso da parte dell’Iraq di armi di distruzione di massa. A tal proposito il New York Times del 14 giugno 2003 si è espresso in questo modo: “quello degli arsenali di Saddam è il peggior scandalo della nostra storia politica”;
4. la crescita del terrorismo. La guerra non può rappresentare uno strumento per combattere il terrorismo, anzi ne alimenta le ragioni e ne rafforza il consenso tra le popolazioni fino al punto di creare un radicamento del terrorismo in ampi territori. Solo la pace e la rimozione delle cause del terrorismo possono essere considerate una soluzione alle diverse questioni tuttora aperte nel mondo, come, ad esempio, nel conflitto israeliano-palestinese;
5. la crescita dei fondamentalismi religiosi. La guerra crea il “brodo di coltura” per la diffusione ed il radicamento dei fanatismi religiosi. In ogni fede esistono diversi approcci teologici e culturali e diverse espressioni nei modi di pensare e praticare la propria esperienza spirituale. La guerra alimenta le componenti più integraliste, spinge interi Stati o vasti strati di popolazione verso chiusure auto-referenziali di portata preoccupante. Soltanto la pace apre al dialogo, all’ecumenismo e ad un rapporto tra la fede e la vita fecondo, ricco di umanità e d’impegni per la promozione umana non disgiunta dalla crescita della giustizia. La scelta di papa Giovanni Paolo II di schierarsi per la pace ha contribuito ad evitare un esito, ancor più nefasto, nel complesso e travagliato contesto islamico con tutti i rischi dell’accendersi dell’idea dello scontro tra religioni e tra civiltà;
6. la guerra alimenta la crescita delle mafie e del narcotraffico. Le mafie ed il narcotraffico sono oggi una piaga dell’umanità, in grado purtroppo di influenzare pesantemente la vita di milioni di uomini e donne e riescono ad esercitare forti pressioni nei confronti della politica e dell’economia. In Italia, nonostante i duri e ripetuti colpi subiti, la mafia è ancora potentissima, al punto da condizionare ancora oggi ampi settori delle istituzioni e dell’imprenditoria. Stesso ragionamento vale per tanti altri paesi. Sottolineiamo in modo particolare la presenza della mafia nei Balcani. Dopo i controversi conflitti che si sono succeduti in quest’area geografica, la mafia del narcotraffico, del contrabbando di sigarette e del traffico di esseri umani è diventata così forte da determinare l’assassinio, in un attentato, del primo ministro serbo, oltre che collocarsi in alcuni Stati ai vertici di governo. Alcuni studiosi del fenomeno mafioso hanno coniato la parola “Stato-mafia” per indicare quanto sta avvenendo di così grave nei Balcani. Anche in Afghanistan oggi il narcotraffico è cresciuto e dopo la guerra milioni di ettari in più sono stati utilizzati nella produzione dell’eroina. Per quanto riguarda la cocaina, le mafie della Colombia, grazie anche alla guerra, sono ancora forti e stanno di nuovo organizzando cartelli di aggregazione dei vari boss locali. Di recente in Italia si è potuto accertare il loro continuo collegamento con la mafia siciliana e calabrese, riuscendo a far entrare in Europa migliaia di chili di cocaina e a riciclare il denaro “sporco” in diversi istituti bancari e finanziari situati in Europa e nei diversi “Paesi offshore” o cosiddetti “paradisi fiscali”;
7. la guerra ha prodotto una pericolosa crisi dell’ONU. Con la guerra preventiva all’Iraq gli Stati Uniti hanno abbandonato la struttura che la comunità internazionale si era data a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Questa struttura era incentrata sull’Organizzazione delle Nazioni Unite e si fondava sul divieto della guerra come metodo per risolvere i conflitti tra Stati. Gli Stati che hanno retto il sistema ONU negli ultimi cinquant’anni possono essere certamente criticati sotto diversi punti di vista, ma oggi l’amministrazione Bush rimette in discussione l’essenza stessa dello sforzo di creazione di un autogoverno internazionale: la decisione di muovere una guerra preventiva contro l’assenza di una minaccia diretta viola il principio di non ricorso all’uso della forza e rischia di distruggere il residuo di autorità delle Nazioni Unite.
Questa politica è stata del resto già anticipata dalla forte e devastante opposizione dell’attuale governo americano ai più importanti trattati multilaterali formulati negli ultimi anni: il protocollo di Kioto, la moratoria sui test nucleari, il protocollo aggiuntivo alla convenzione sulle armi biologiche, il Tribunale penale internazionale. Se questi strumenti fossero stati ratificati e consolidati il mondo oggi sarebbe più sicuro. In sostanza la guerra uccide umanità, valori, cultura e ambiente, spinge i popoli verso i fondamentalismi, occulta e manipola i problemi reali e primari quali le povertà, le ingiustizie e le disuguaglianze. La guerra è la sconfitta della politica e della democrazia. Naturalmente la pace impone faticosi sforzi per diventare cultura e pratica nella vita quotidiana, nei rapporti tra le persone, le famiglie, le comunità, cultura e pratica nella gestione dei conflitti internazionali.
La democrazia ha bisogno di più pace. Come hanno dimostrato in tutto il mondo milioni di cittadini organizzati nei diversi e plurali movimenti della pace insieme a voci autorevoli come quella del Papa e di altri capi religiosi che si sono levate contro la guerra. Così a livello internazionale si avverte sempre più pressante l’esigenza di una riforma radicale dell’ONU che dovrebbe giungere a contenere tre diversi livelli decisionali in grado di interagire tra di loro: i governi, i parlamenti e la società civile organizzata. Non solo. Questi tre livelli debbono cooperare tra loro ed essere tutti e tre in grado di gestire le problematiche mondiali di più ampio respiro. L’ONU così riformata deve intervenire su tutti i teatri di conflitto locali così come in Colombia. L’Organizzazione delle Nazioni Unite deve aprire dei tavoli di dialogo, incentivare gli accordi, denunciare e penalizzare la negazione dei diritti umani. Da qualunque parte siano causate.
Il nostro modo di vivere, di consumare, di comportarci, decide la velocità del degrado entropico, la velocità con cui viene dissipata l’energia utile e il periodo di sopravvivenza della specie umana. Si arriva così alla necessità di far emergere le democrazie come promotrici del concetto di sostenibilità, intesa come insieme di relazioni tra le attività umane e la biosfera, con le sue dinamiche generalmente più lente. Queste relazioni devono essere tali da permettere alla vita umana di continuare, ai cittadini di soddisfare i loro bisogni e alle diverse culture di svilupparsi, ma in modo tale che le variazioni apportate alla natura dalle attività dell’uomo stiano entro certi limiti così da non distruggere il contesto biofisico globale. Se riusciremo ad arrivare ad un’economia da equilibrio sostenibile, le future generazioni potranno avere almeno le stesse opportunità che la nostra generazione ha avuto: è un rapporto tra economia ed ecologia, in gran parte ancora da costruire, che passa dalla strada dello sviluppo sostenibile. È tempo pertanto di costruire percorsi democratici di governo dello sviluppo in grado di rompere i monopoli dei brevetti nelle mani di alcune “corporations” o colossi finanziari.
Nel campo della sanità, solo per citare un caso, i vari sistemi di brevettazione oggi causano la morte di milioni di africani impossibilitati ad accedere ai farmaci antivirali per la cura contro l’AIDS. In Mozambico, ad esempio, il 16 per cento della popolazione è colpita dall’HIV e l’aspettativa di vita è scesa a 41 anni. Sono necessari dai 15.000 ai 25.000 dollari per una cura annuale di farmaci “antiretrovirali brevettati”, mentre è invece di 350 dollari il costo annuo di una cura con farmaci “antiretrovirali generici”. Valutazioni, queste, che sono il frutto dell’esperienza di associazioni di volontariato che in Mozambico stanno sfidando una multinazionale come la “Bigpharma”. Le regole ormai le conosciamo tutti, sette multinazionali detengono il monopolio dei brevetti sulle terapie anti-AIDS. L’incremento dei profitti delle multinazionali farmaceutiche è stato del 20 per cento soltanto nel 2002. È ormai risaputo che i brevetti sui farmaci sono protetti dal WTO in base agli accordi TRIPS approvati nel 1994. Le case farmaceutiche hanno pertanto il monopolio sui farmaci brevettati per venti anni, fino al 2016 per le terapie anti-AIDS. Ma i bambini, le donne e gli uomini ammalati di AIDS cosa fanno?
Per le multinazionali farmaceutiche di fatto possono morire. Lasciano semmai ad una piccola parte di popolazione qualche chance sottoponendola alla selvaggia sperimentazione per conto di qualche multinazionale. È bene anche ricordare che i paesi che hanno ratificato gli accordi TRIPS possono acquistare i farmaci anti-AIDS esclusivamente dalle società titolari del brevetto, in caso contrario subiscono sanzioni commerciali. Va apprezzata, invece, la scelta del governo del Sud Africa che nel marzo 2001 si è scontrato nelle aule di giustizia contro le multinazionali per aver deciso di produrre farmaci anti-AIDS. Dopo le proteste internazionali, le società si sono ritirate dal processo. Ricordiamo, inoltre, che Brasile, India e Thailandia hanno cominciato a produrre autonomamente i farmaci senza ratificare gli accordi TRIPS ed hanno rifiutato compromessi con le multinazionali. È chiaro ormai che queste regole sui brevetti debbano essere radicalmente riviste. Ma una soluzione in questo senso è stata bocciata lo scorso dicembre dal governo americano.
Lo sviluppo sostenibile deve rompere con questo modello di organizzazione dei brevetti. E lo stesso lavoro bisogna fare nel campo dell’agricoltura bloccando le manipolazioni genetiche e favorendo le coltivazioni biologiche. Pensiamo alle enormi possibilità di sviluppo che si possono avere nell’agricoltura biologica, nell’agriturismo biologico, nel commercio “equo e solidale”, nell’accesso al credito dei piccoli produttori di beni e servizi. Così bisogna agire anche nell’ambito della gestione delle risorse idriche, dell’accesso alla casa, al cibo, all’informazione, all’istruzione e alla ricerca scientifica. Per fare un esempio la FAO, all’ultimo vertice di Roma, ha chiesto 24 miliardi di dollari per dimezzare la fame nel mondo entro il 2015. Ma i Paesi ricchi d’Occidente non sono disposti a dare neppure queste briciole. Confrontiamo questi 24 miliardi con i quasi 500 miliardi di dollari che costituiscono il bilancio delle spese militari USA per il 2003. Siamo di fronte non solo ad una gigantesca sproporzione nella distribuzione delle risorse, ma ad una trasformazione epocale da uno Stato liberale e sociale ad uno Stato militarista.
Tutto ciò richiede una rottura progettuale di enorme genialità. Non sarà un lavoro facile. Ma intanto bisogna iniziare. Si potrebbe partire dalla costituzione di nuove autorità indipendenti da inserire all’interno dell’ONU riformata, in cui in modo paritetico governi, parlamenti e movimenti della società civile organizzata possano creare le nuove regole di base per ridurre progressivamente il commercio delle armi, combattere lo sfruttamento del lavoro minorile, creare le condizioni di pari opportunità salariali tra i lavoratori e tra gli uomini e le donne, di accesso al lavoro, di crescita professionale, di promozione dei diritti umani, sociali e politici. Devono essere autorità indipendenti con poteri forti, in grado di definire la base minima cui ogni paese deve attenersi nei campi appena richiamati. È necessario che queste autorità abbiano anche le risorse economiche per poter intervenire adeguatamente, sperimentando ad esempio la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie internazionali.
Troppe decisioni sono espressione della volontà di una minoranza di persone, anzi la maggioranza delle decisioni sono prese da soggetti esterni alla democrazia: la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario, ad esempio, decidono i destini dell’umanità seppur privi di legittimazione democratica.
Gli accordi commerciali, le multinazionali, i circuiti dell’economia finanziaria sono sempre più determinanti e agiscono al di fuori di qualunque controllo democratico. Stesso ragionamento è estendibile ad altri versanti. Ci riferiamo, ancora una volta, al ruolo svolto dalle mafie che sempre più sono in grado di movimentare risorse e condizionare il destino di tanti uomini e donne, di intere comunità. Basti pensare a quello che riescono oggi a fare nel campo dei circuiti finanziari internazionali: in pochi minuti determinano lo spostamento ed il riciclaggio di tali flussi di denaro e di titoli così da aggirare e schiacciare qualunque controllo o esercizio della sovranità nazionale di qualunque paese nel mondo. Bisogna organizzarsi per evitare tutto ciò, per fare in modo che siano le strutture a base democratica a decidere i destini del mondo e ridare così alla politica democratica la sua dovuta centralità. L’idea di democrazia liberale non è in grado di affrontare questo complesso e faticoso compito. Della democrazia liberale dobbiamo mantenere ferma la cosiddetta divisione dei poteri, garantendo soprattutto piena autonomia e indipendenza alla magistratura. Il resto è da rinnovare attraverso una ridefinizione dei poteri a vantaggio della partecipazione dei cittadini organizzati.
Ma è anche necessario ridefinire l’accesso all’informazione. Oggi anche questa è nelle mani di pochi. È necessario anche costruire una forte democrazia dal basso per consentire ai cittadini, alle organizzazioni sindacali, ai movimenti e alle associazioni di partecipare alla costruzione dei bilanci delle città e di essere coinvolti negli interventi di promozione di tutti i diritti come pure nella crescita delle piccole e medie imprese e dell’autosviluppo locale. Bisogna, inoltre, costruire, ampliare lo spazio della decisione democratica creando delle forti unità sociali, economiche e politiche tra i paesi omogenei, come sta avvenendo in Europa. Bisognerebbe fare lo stesso in America Latina, in Africa e nel Sud-est asiatico. Avremo in questo modo più poli, più democrazia e più chance per la pace e per i diritti umani. La globalizzazione ci impone di collocare la crescita della democrazia in contesti sempre più ampi. Nella difesa degli Stati-nazione non c’è un adeguato spazio politico, sociale ed economico per ottenere dei risultati positivi. Soltanto in contesti più estesi ed omogenei è possibile realizzare riforme strutturali e positive per i diritti dei lavoratori e per la lotta alle numerose forme di esclusione sociale e alla distruzione dell’ambiente.
Solo in questi nuovi contesti politici di aggregazione tra gli Stati è possibile realizzare nuovi livelli di crescita economica in coerenza con lo sviluppo sostenibile e con la promozione di tutti i diritti. In tal modo possono riprendere con forza nella società nuova cammini post-ideologici di cambiamento e miglioramento dell’umanità. In sostanza la decisione democratica passa attraverso un salto di qualità da far fare alla democrazia della rappresentanza.
Non è sufficiente lavorare sulla democraticità delle decisioni per ridare forza e ruolo alle democrazie; né avere delle istituzioni più democratiche nelle città e nei circuiti della globalizzazione; né, ancora, integrare la democrazia della rappresentanza con la democrazia partecipata. Occorre puntare molto sulla partecipazione politica democratica che deve maturare e crescere attraverso la “riforma della politica”. Non ci riferiamo tanto agli aspetti istituzionali o legislativi. Quanto, piuttosto, alla politica organizzata dai partiti e dai movimenti. Perché la politica così com’è non è in grado di costruire la democrazia. Anche la politica necessita di una radicale riforma nei valori che la caratterizzano, nei soggetti che la praticano, nei livelli organizzativi che la strutturano, nella progettualità in cui si concretizza.
La politica si è sempre più impoverita e molti cittadini le voltano le spalle tenendosi lontano dalla militanza e dalla partecipazione. Essa viene percepita, spesso a ragione, come luogo dell’inganno, della corruzione, degli intrighi, delle incoerenze. E così non si colgono più le differenze tra gli opposti schieramenti e tra i partiti. C’è poi una corsa al moderatismo piuttosto sfrenata ed ideologica. Si fa largo una sorta di rinuncia all’idea che la politica debba essere il luogo in cui si contribuisce al cambiamento democratico della società.
In molti Paesi i leaders politici hanno conquistato i partiti, svuotandoli della parte sana della loro tradizione e della partecipazione degli iscritti, dei militanti e degli stessi cittadini. Fino al punto da ritrovare in giro per il mondo partiti senza identità con a capo leaders dispotici guidati dai propri interessi economici e spesso accusati di avere rapporti con le mafie. La soluzione non può essere quella di voltare le spalle alla politica rinunciando all’impegno politico, così ripiegando nella presunta neutralità della società civile. Naturalmente non si può neanche fare appello ad un generico impegno politico e ad un inserimento nella politica così come è. È necessario, invece, chiamare tutti a spendersi per la riforma della politica: una sfida sia per i partiti che per i movimenti.
I partiti non vanno cancellati, ma radicalmente riformati e ciò attraverso meccanismi aperti di selezione delle classi dirigenti, nonché attraverso una marcata ridefinizione della progettualità programmatica e la riorganizzazione e la ristrutturazione dei vari livelli organizzativi. Le stesse associazioni ed i movimenti non debbono commettere l’errore di dare per scontata la propria capacità di innovazione politica. Anche queste realtà devono elaborare e praticare una propria autonoma riforma della politica. Diventa fondamentale, ad esempio, elaborare e sperimentare percorsi concreti in cui si definiscano la crescita politica delle leaderships, la gestione delle differenze, del pluralismo e dei possibili conflitti, del come progettare la propria presenza nel territorio e nella globalizzazione. In tal senso non mancano segnali positivi che vanno arricchiti da itinerari formativi e da esperienze progettuali ed organizzative che sostituiscano il “fare per i cittadini” con il “fare con i cittadini”.
È tempo per ritornare all’impegno politico perché senza la partecipazione politica non saremo in grado di dare voce alle ansie e alle ingiustizie dell’umanità, così pure non saremo in grado di dare voce e rappresentanza alla speranza e all’innovazione presenti in qualunque parte del mondo.

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