Alla conclusione anticipata della XV legislatura, la Commissione parlamentare Antimafia il 20 febbraio 2008 ha trasmesso alle Presidenze delle Camere la relazione annuale, redatta dallo stesso presidente Francesco Forgione, imperniata sulla ’ndrangheta calabrese e oggi pubblicata dalla casa editrice palermitana La Zisa (" 'Ndrangheta. La relazione della Commissione Antimafia" (pagg. 216, euro 15, www.lazisa.it).
Si tratta di un documento, come i lettori potranno constatare, di notevole fattura sia nella esposizione dei fatti accertati, che nella denunzia della estrema pericolosità di una organizzazione criminale – per troppo tempo sottovalutata, nonostante talune sottolineature da più parti avanzate già da qualche lustro – che oggi controlla tutto il territorio calabrese, che ha intessuto rapporti di collaborazione con analoghe organizzazioni criminali operanti in Italia e all’estero, e che negli ultimi trent’anni, nel nostro Paese, ha messo salde radici in quasi tutte le regioni del centro-nord.
Come sovente colpevolmente accade, sono stati alcuni eclatanti omicidi – nel caso specifico, la strage compiuta a Duisburg in Germania, nell’agosto 2007, e l’assassinio del Vice Presidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno – a mettere in primo piano l’esigenza di colmare i ritardi e i vuoti o a suscitare l’interesse diffuso nei confronti di temi scottanti, soprattutto quelli inerenti alla diffusione della criminalità organizzata di tipo mafioso, che altrimenti rimarrebbero destinati al silenzio o, nel migliore dei casi, alle snobbate analisi storico-sociologiche degli studiosi.
La relazione Forgione, da questo punto di vista, seppure non lo dichiari espressamente, vuole essere un monito alle istituzioni, in primo luogo, ma anche a tutte le categorie sociali e ad ogni singolo cittadino, di non prendere mai sottogamba taluni fenomeni che a prima vista possono apparire limitati nel territorio o di piccola entità. Se opportunamente presi in tempo certi morbi, anche i più gravi, possono essere curati e debellati definitivamente, senza il bisogno di ricorrere a misure drastiche e talora infruttuose, quando ormai il corpo è stato pesantemente intaccato e non c’è più speranza di completa guarigione. Fuor di metafora, se la pericolosità della ‘ndrangheta fosse stata colta al suo primo manifestarsi con i sequestri di persona e la richiesta dei relativi riscatti, oggi non ci troveremmo al punto in cui siamo, con la sua ramificata presenza in quasi tutto il territorio nazionale; con la potenza economica dei suoi clan, tale da poter condizionare pesantemente la vita di intere comunità, di interferire o condizionare i consigli comunali di non pochi comuni persino del nord Italia, di possedere decisive quote azionarie in imprese di medie e grandi dimensioni, di gestire in prima persona grandi centri commerciali, o di acquistare intere banche.
La ’ndrangheta non è strutturata come la siciliana Cosa nostra, – le sue strette maglie famigliari non hanno mai consentito, se non nell’ultimo periodo, di penetrare al suo interno –, sa meglio mimetizzarsi nella società, e non ricorre o non ha fatto ricorso, se non in pochissimi sparuti casi, agli omicidi eccellenti, ma la sua presenza nella gestione degli appalti pubblici, come nel caso sottolineato del tratto di autostrada che percorre il territorio calabro, risale agli anni Sessanta, ed un occhio vigile lo avrebbe notato di sicuro, se solo avesse voluto dare un’occhiata meno distratta. O, più recentemente, la condizione della intera Sanità, con lo sperpero di denaro pubblico e la morte di cittadini in particolare gli anziani, non poteva e non doveva passare inosservata da parte di chi aveva il compito precipuo di vigilare sulla sua regolarità. Non ci sono scusanti di alcun genere e per nessuno, di fronte a certi comportamenti delinquenziali fin troppo evidenti.
Se il Meridione ha gravi colpe per le sue sciagure, anche il Settentrione non ha alcun diritto a protestare la propria adamantina pulizia morale. Sul versante del malaffare Nord e Sud d’Italia vanno di pari passo, sono molto più vicini di quanto non sembri a prima vista. Tra la Calabria e la Lombardia (diventata ormai la quarta regione italiana per densità mafiosa), almeno nel campo della prevenzione del crimine, non c’è molta differenza. In tutte e due vi sono esponenti delle classi dirigenti che colludono in qualche modo o lasciano campo libero o si illudono di restare immuni o, pur sapendo, nulla fanno per prendere le necessarie precauzioni. Lo stesso discorso, seppure con talune sostanziali differenze, vale anche per il Lazio, il Piemonte, la Liguria e l’Emilia-Romagna, dove al posto della ’ndrangheta o insieme ad essa si annidano le cosche della camorra, di cosa nostra o della sacra corona unita. In nessun caso il denaro degli affari può essere una scusante o un alibi dietro al quale nascondersi, soprattutto quando mette in gioco la sicurezza e la vita degli altri.
Come non può avere alcuna giustificazione la progettazione ed esecuzione di alcune grandi opere di ammodernamento del nostro Paese, come per esempio l’alta velocità, certamente necessaria, quando dietro ad esse si muovono interessi illegali. O ancora, sbandierare come infrastrutture necessarie altre costruzioni, come il Ponte sullo Stretto di Messina, non solo dispendioso ma assolutamente inutile, promettendo migliaia di posti di lavoro, finiti i quali, tutto ritornerebbe al punto di partenza. Prima di procedere con queste iniziative, – solo, per intenderci, quelle realmente portatrici di ricchezza di lunga durata –, è necessario indagare ed avere tutte le garanzie necessarie sulla probità di coloro che, correttamente, hanno vinto il bando di concorso per la loro realizzazione. E in ogni caso, anche in quelle in cui non se ne riconosca la opportunità, come nel caso del Ponte sullo Stretto, – che fino ad oggi è costato al contribuente italiano una somma assai ragguardevole finita per l’intero nelle tasche di consulenti, progettisti, speculatori e quanti altri, senza alcun beneficio per la collettività – di accertarsi fino in fondo sulle reali intenzioni di tutti coloro che in un modo o nell’altro vi ruotano attorno, sui gruppi di pressione economici e politici che sollevano piazze e muovono marce su Roma, per poterli inchiodare di fronte alla pubblica opinione prima ancora che nelle aule di Tribunale.
Ecco perché quando si parla di legalità e sviluppo (sia al Sud che al Nord), bisogna intendersi bene sul significato da dare a queste che sembrano due magiche parole. Una espressione ormai abusata, – che suona bene nei comizi o nei dibattiti televisivi, proprio per la banalizzazione dei concetti che i due luoghi producono o consentono –, alla quale invece bisogna dare contenuti più precisi, articolati e persuasivi. È arrivato il momento, se si vuole essere coerenti con le promesse di pulizia e di lotta alla criminalità mafiosa, di porre la parola fine alla demagogia, al populismo, o peggio ancora all’accaparramento e mercato dei voti dietro la promessa facile di realizzare progetti che non modificano l’assetto attuale della società italiana.
Non è morale, se mai lo è stato, contrabbandare la necessità di sedare la fame di lavoro stabile di milioni di cittadini con promesse velleitarie e spesso dannose, al solo scopo di ingrossare le tasche già piene degli amici degli amici. Non crediamo di sbagliare se affermiamo che la lotta alla criminalità mafiosa è ben lungi dall’essere giunta ad un punto più che soddisfacente, proprio perché su questo fronte non si sono compiuti i passi in avanti che sulla carta spesso vengono enunciati. La politica italiana, e non solo la politica, denuncia ancora notevoli ritardi proprio sul versante della legalità e dello sviluppo, come si evince del resto dalla splendida relazione del Presidente Forgione.
Un’ultima annotazione, prima di concludere. Dalla costituzione della prima Commissione nazionale antimafia ad oggi, ci si è concentrati essenzialmente sulle organizzazioni siciliane, trascurando le altre manifestazioni criminali analoghe sparse nel restante meridione, con la conseguenza che oggi ci troviamo a dover fare i conti con la ’ndrangheta calabrese che è stata lasciata libera di rafforzarsi ed espandersi oltre i confini all’interno dei quali è germogliata. Sarebbe il caso di non commettere ancora una volta lo stesso errore. Da oggi in poi è d’uopo contrastare la mafia calabrese, senza perdere di vista la pugliese, la campana, oltre a quella siciliana, che, sebbene colpita in alcuni punti vitali nel recente passato, non per questo deve considerarsi sconfitta in via definitiva.
Trent’anni di Relazioni antimafia hanno dimostrato senza ombra di dubbio che l’Italia continua ad avere un diffuso deficit di legalità che attraversa obliquamente tutte le sue diverse componenti. Ed è questo uno dei motivi principali della crisi che oggi attraversa il nostro Paese che è contemporaneamente morale, sociale, istituzionale ed economica.
Come, quando e perché siano venuti meno il rispetto e la osservanza delle regole è, a nostro avviso, la questione sulla quale tutti dobbiamo sentirci impegnati a riflettere. Con l’avvertenza che la riflessione può diventare un inutile orpello se non è accompagnata da comportamenti virtuosi.
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