(Velino) - “Ego Rosalia Sinibaldi Quisquine et rosarum domini filia amore dni mei Iesu Cristi ini hoc antro habitari decrevi” (Io Rosalia di Sinibaldo, padrone della Quisquina e delle Rose, per amore del mio Signore Gesù Cristo, ho deciso di vivere in questa grotta): recita così, in un latino medievale impastato di siciliano, l’incisione nella grotta della Quisquina (Ag), attribuita alla Santuzza. Più volte, negli ultimi decenni, era stata avanzata la tesi che quel rinvenimento, risalente al 1624, fosse in realtà un falso storico. Adesso ci sono le prove (o almeno così pare) che dietro quel graffito non ci sia la nobile eremita, vissuta nel XII secolo, ma la “mano” interessata della Compagnia di Gesù, ben 500 anni più tardi. A svelare forse definitivamente l’arcano è Giancarlo Santi nel suo “Ego Rosalia. La Vergine palermitana tra santità ed impostura” (La Zisa). Testo-chiave dell’indagine è un manoscritto conservato nella biblioteca comunale di Palermo, pubblicato per la prima volta in appendice al volume e finora trascurato dagli studiosi, che proverebbe come l’“operazione Santa Rosalia” sia stata concepita a tavolino a Palermo per volontà “politica”. “All’inizio del ‘600, Rosalia era una vecchia santa dimenticata, la cui devozione era limitata a poche persone nei pressi del monte Pellegrino, dove secondo la tradizione avrebbe trascorso i suoi ultimi giorni - afferma Santi al VELINO -. In pochi mesi, però, riuscì a scalzare tutti gli altri, nonostante il capoluogo siciliano contasse all’epoca quattro protettrici (Agata, Cristina, Oliva e Ninfa, ndr) e ben 21 santi protettori”.
Invocata nel corso di una processione durante la peste del 1624, la Santuzza avrebbe fermato l’epidemia, che fino ad allora aveva ucciso 30 mila palermitani, un quarto del totale della popolazione. Quello stesso pomeriggio furono scoperte le sue reliquie e poco più di un mese dopo, alla Quisquina, fu ritrovata la grotta del suo primo eremitaggio con la celebre incisione, scoperta casualmente da due intagliatori di pietre palermitani. Il tutto condito di miracoli e guarigioni inspiegabili, come attesta il “Di Santa Rosalia Vergine Palermitana”, l’edificante opera del gesuita Giordano Cascini, che ne aveva ricostruito l’albero genealogico facendola discendere addirittura da Carlo Magno. Le deposizioni giurate raccolte nel manoscritto analizzato da Santi, però, raccontano un’altra storia, ben più complessa. La diffusione della vulgata sulla Santuzza, infatti, non era stata lineare, tanto che nel 1642 alla Congregazione dei Riti fu presentata una denuncia per cancellare dal Martirologio romano il riferimento alla discendenza dal re carolingio e la dimora alla grotta della Quisquina. Il tribunale ecclesiastico aprì un’inchiesta per acquisire notizie sui miracoli che si erano verificati e sul ritrovamento dell’antro e ascoltò dodici testimoni del paese in cui, meno di 20 anni prima, era stata scoperta la caverna.
“Le loro deposizioni e il linguaggio utilizzato non combaciano con la versione tramandata nei loro scritti dai gesuiti, dimostrando che l’iscrizione è un falso - spiega Santi -. Uno di loro afferma esplicitamente che l’ordine di andare a guardare lì dentro era venuto dal governatore Giuseppe Emanuele Ventimiglia. La scoperta dell’iscrizione fu dunque la conseguenza di un volere manifestato a Palermo dalle alte gerarchie isolane”. Una decisione “politica”, maturata in un fase drammatica della città, flagellata dalla peste. Il motivo? Nessuna delle quattro patrone era nata a Palermo, al contrario di Rosalia, e in un momento tanto difficile la Santuzza, di casato nobile ma vissuta in assoluta povertà, rappresentava l’optimum, perché era una santa “interclassista” in cui tutti i ceti sociali potevano riconoscersi. Soprattutto, permise ai gesuiti di “sconfiggere” i francescani, che stavano cercando di imporre il culto di Benedetto il Moro, e di gestire da quel momento in poi il patronato della città. “Rosalia sarà sempre una santa gesuita e una fonte di potere e vantaggi per la Compagnia di Gesù”, scrive Santi. Un modello di successo, esportato anche nelle terre di missione della Compagnia, dalla Cina al nuovo Mondo, soprattutto in California e Paraguay. Grazie anche all’epigrafe posticcia. Ma come diceva Francis Bacon, le cui parole aprono il volume, “l’uomo preferisce credere a ciò che gli piacerebbe fosse vero”.
(Paolo Fantauzzi) 22 gen 2010 18:35
Nessun commento:
Posta un commento